Sentenza di Torino del processo sull’amianto (9)
La volta scorsa ho parlato un po’ della sentenza di primo grado del processo di Torino, ma in verità anche in Giappone ci fu un processo simile, in cui fu al centro della discussione proprio la prescrizione (giudiziaria). Fu il processo di Minamata nella prefettura di Kumamoto, per il caso della Malattia di Minamata.
Il 29 febbraio del 1988 il secondo tribunale comune della Corte Suprema (equivalente all’italiana Corte di Cassazione) ha emesso una sentenza che nei suoi punti principali recita: “Nel reato previsto dall’articolo 253 del codice di procedura penale sono compresi gli effetti stabiliti da ogni principale articolo del codice penale”.
Questo processo riguardava il caso del più grande episodio di inquinamento, entrato nella storia del Giappone, chiamato Malattia di Minamata, e fu la prima sentenza che avesse mai riconosciuto la responsabilità penale dei manager di un’azienda.
Gli imputati erano due. Il primo ricoprì il ruolo di amministratore delegato della Shin Nippon Chisso Hiryo s.p.a. (Nuova Concimi Azotati Giapponese, Chisso Corporation), mentre il secondo il ruolo di direttore della fabbrica di Minamata appartenente alla stessa azienda. Inoltre le vittime furono sette, tra morti e feriti.
La fabbrica di Minamata di questa azienda già da qualche tempo riversava nel golfo di Minamata le acque di scarico, ma quando alcuni abitanti della zona che mangiavano il pesce e i frutti di mare di quel golfo cominciarono ad avere delle malattie la cui causa non era chiara, dal maggio del 1956 la cosiddetta Malattia di Minamata divenne un problema di interesse sociale.
Nel luglio del 1958 un’indagine del Ministero della Salute rese chiaro che nelle acque di scarico della fabbrica di Minamata erano presenti le sostanze che causavano la Malattia di Minamata, e ne mise a conoscenza i due imputati. Di conseguenza da quel momento i due imputati avrebbero dovuto obbligatoriamente prendere dei provvedimenti cautelativi che mettessero fine allo sversamento di quelle acque di scarico nel golfo. Tuttavia i due imputati ignorarono questo obbligo, e dal settembre del 1958 al giugno del 1960 continuarono un po’ a caso a sversare le acque di scarico nel golfo. Nelle acque di scarico vi era il clorulmetilmercurio (CH3-Hg-Cl), prodotto dal processo di fabbricazione dell’acetaldeide da parte di questa fabbrica, e in conseguenza dello sversamento di questo tipo di sostanza nelle acque del golfo di Minamata i pesci e la fauna marina di quel tratto di mare ne furono contaminate e ne accumularono in gran quantità, divenendo la causa della Malattia di Minamata che colpì gli abitanti della zona che mangiavano di quel pesce. I principali sintomi della malattia che si manifestarono sono disturbi al sistema nervoso centrale dovuti a intossicazione, che consistevano in parestesie alle mani e ai piedi, atassia, indebolimento del campo visivo, danni all’udito, difficoltà nell’articolare le parole e tremore.
Questa malattia in inglese viene chiamata “Minamata Disease”, e fu il punto di riferimento dei danni da inquinamento, e in particolare è conosciuta in tutto il mondo come danno ambientale dovuto all’inquinamento da mercurio. Le vittime di questa malattia si dice che siano decine di migliaia, e anche oggi, a più di sessanta anni di distanza dalla sua prima manifestazione, non se ne è trovata la soluzione.
Questi due manager nel maggio del 1976 sono stati accusati di lesioni e omicidio colposi per negligenza nell’attività, secondo l’articolo 211 del Codice Penale. Questo articolo tratta di atti di “negligenza verso le necessarie attenzioni nell’attività, causanti conseguentemente morti o feriti”, in cui si dice che il termine “attività (gyōmu)” indica “un’occupazione in cui si fa qualcosa di continuato e ripetuto, al fine di portare avanti una vita sociale”. Ma nell’articolo 57 del Codice del Lavoro, nonostante lo stesso termine giapponese “nell’attività (gyōmu-jyō)” usi le stesse identiche parole, con questa espressione si intende il lavoro svolto da un lavoratore, che differisce un po’ nel significato.
In seguito nel marzo del 1979 fu emessa la sentenza di primo grado dal Tribunale di Kumamoto, nel settembre del 1982 la sentenza di appello dall’Alta Corte di Fukuoka, e poichè si ricorse ulteriormente in appello, nel febbraio del 1988 fu emessa la sentenza di terzo grado dalla Corte Suprema.
In questo processo ci sono vari punti di discussione, ma proverò a limitarmi a quello che riguarda la prescrizione.
L’accusa fu emessa nel 1976, ma in quel momento sei delle sette vittime erano già decedute. Per essere più precisi, quattro erano morte nel 1959, una nel 1971, e un’altra nel 1973. A proposito, poiché in questo processo gli atti oggetto di reato avvennero fino al 1960, non si applicava l’attuale art. 211 del codice penale, ma la vecchia legge precedente alla modifica del 1968, che prevedeva “fino a tre anni di reclusione o fino a mille yen di multa”. Quindi il termine della prescrizione giudiziaria era di tre anni.
Nella prima istanza del Tribunale di Kumamoto, per quanto riguarda il punto di partenza del computo della prescrizione giudiziaria si è deciso così: “Se si intende per questo la fine della messa in pratica di un azione, riguardo agli effetti di un crimine per cui non ci siano delle norme stabilite che puniscano il reato non portato a compimento, la prescrizione giudiziaria si estinguerebbe nel frattempo che l’effetto non si è ancora realizzato, e con ciò si verificherebbe un caso in cui non si può intentare una causa, provocando un effetto illogico.” Per quanto riguarda i due imputati la fine dell’attività relativa all’atto criminale era l’agosto del 1960, e tre anni dopo, cioè nell’agosto del 1963 si estinse la prescrizione giudiziaria. In quel periodo tra le 7 vittime, per quanto riguarda alcune cinque di loro che erano già morte prima del 1960, o che erano dei bambini nati con dei danni (malformazioni del feto), si era arrivati alla scadenza dei termini di prescrizione. Per quanto riguarda due persone morte nel 1971 e nel 1973 è stata emessa la sentenza di colpevolezza con due anni di reclusione con tre anni di condizionale. Per questa condanna i due imputati sono ricorsi in appello, ma la Corte d’Appello di Fukuoka ha rigettato il ricorso.
Poichè i due imputati hanno fatto ancora ricorso si sono appellati alla Corte di Cassazione ma questa, in particolare riguardo alla vittima G che era nata con un handicap nell’agosto del 1960 e deceduta nel giugno del 1973, ha deciso quanto segue:
“Effettivamente dalla nascita alla morte è passato un lungo periodo di dodici anni e nove mesi. Tuttavia riguardo al punto di partenza del calcolo dei termini della prescrizione giudiziaria, poichè è ragionevole intendere che con il termine “atto criminale” riportato nel comma 1 dell’articolo 253 del Codice di Procedura Penale si comprendono gli effetti stabiliti da ogni principale articolo del Codice Penale, la prescrizione giudiziaria per il reato di lesioni e omicidio colposi, che vede G come vittima, comincia a decorrere dalla morte dello stesso G, momento che diventa il punto finale dell’atto criminale in questione; e per quanto riguarda la questione se al momento della nascita di questa persona il reato di lesioni e omicidio colposi fosse stato o meno portato a compimento, e se successivamente per quel reato fosse passato o meno il periodo di prescrizione giudiziaria, si deve dire che non è una cosa di fondamentale importanza decidere se il periodo di prescrizione per il suddetto reato sia arrivato a conclusione o no. Di conseguenza, sulla decisione di intentare una causa per reato di lesioni e omicidio colposi il giorno 4 maggio del 1976, cioè prima che scadessero i termini di prescrizione che vengono calcolati a partire dal momento della morte della vittima G, la prima decisione che non considerava estinti i termini della prescrizione stessa era corretta.” È stata dunque riconosciuta la decisione presa dal Tribunale di Kumamoto.
Per questo caso, oltre ai punti riguardanti la prescrizione giudiziaria, c’erano delle controversie anche sul fatto se si violasse o meno l’articolo 37 comma 1 della Costituzione che recita: “In tutti i casi penali l’imputato ha diritto a subire un rapido processo da parte della Corte”. Su ciò la Corte di Cassazione si è così espressa: “In questo caso penale è vero, come commentano i difensori legali degli imputati, che l’accusa è stata intentata molti anni dopo rispetto alla venuta fuori dei fatti, ma questo processo ha avuto un percorso molto complesso che riguardava un delitto ambientale che non aveva precedenti, e alla luce di eccezionali considerazioni come la particolare difficoltà avuta nel chiarire alcuni fatti, tuttora non si riconosce che ci siano stati dei ritardi nell’intentare l’accusa.” Anche oggi, in tutti gli aspetti della nostra vita, siamo circondati da sostanze chimiche di cui non siamo a conoscenza. Al giorno d’oggi ci sono molte malattie incurabili di cui non conosciamo le cause, e per rendere chiaro e capire che la causa sono delle sostanze chimiche, probabilmente potrebbero volerci molti anni.
È solo una disgressione, ma mi sono accorta che nella sentenza del processo di Kumamoto compare la parola “Italia”. C’è scritto: “La Nippon Chisso Hiryo Corp. nel dicembre del 1921 comprò dall’Italia i diritti del brevetto di Luigi Casale della formula del processo di sintesi dell’ammoniaca sintetica, e dopo esser riuscita a produrla nella fabbrica di Nobeoka nella Prefettura di Miyazaki, nel 1925 costruì a Minamata una fabbrica per la produzione di ammoniaca con la stessa formula e per la produzione di solfato di ammonio. Produsse così a basso costo l’ammoniaca sintetica di Casale e il solfato di ammonio, riuscendo a crearsi un posto ben saldo nel mondo della produzione di questa sostanza. Quindi l’Italia già dal passato era un Paese molto sviluppato a livello industriale! Ora, sembra che all’interno del sito della fabbrica della Asahi Kasei che si trova nella città di Nobeoka nella Prefettura di Miyazaki, ci sia esposta la “Torre della sintesi dell’ammoniaca di Casale”
Avv. Reiko Atsumi
Trad. Diego Lasio